Introduzione

Salve a tutti, questo è il progetto di uno spazio a più voci che possa dare luogo a scambi d'opinioni utili per gli autori o che comunque serva a fissare un determinato pensiero "nero su bianco": un taccuino, insomma, per quelle speculazioni che non vorremmo lasciare all'oblio.

martedì 27 aprile 2010

Alla Deriva

M’ero rotto il cazzo, di gente che mi ricordava d’un passato dove io avrei potuto avere un potenziale, una ragione di vita. Seduto nella stanza scura, pantaloni abbassati alle caviglia, avrei voluto dimenticare il mio nome, i mille piccoli garbugli e responsabilità che la vita mi aveva buttato in faccia, regolarmente, da qualche anno a questa parte, un passato, un’età dell’oro che assomigliava sempre più ad un film, persone, volti e pensieri una volta familiari ora m’apparivano orridamente stranieri, come un incubo, in cui tutto è familiare, ma una corrente subconscia ti porta a temere quelle immagini, a non accettarle, a fuggirne disperato. L’ultimo fetish giapponese lampeggiava e scorreva sullo schermo in streaming, e la mente s’annullava in quella libidine. Perchè, perchè non possiamo vivere sempre come sulla soglia d’un orgasmo, perchè non possiamo superare ogni barriera, e semplicemente perderci nell’attimo presente, e poi in quello futuro, e quello dopo ancora? Ma nulla esiste al di fuori dei nostri confini. Soddisfatto il bisogno, il pensiero s’annulla. Il fronte sconfinato delle possibilità, estrapolato dall’iperbolica trasformazione dell’adolescenza, e situato in qualche tempo futuro, non è solo lontano, non è solo irraggiungibile, ma non esiste. Pulito il misfatto, non potei fare a meno di catturare nella retina l’immagine sconfitta allo specchio. Una incongruenza, qualcosa di sbagliato e perverso dev’essere accaduto. Quell’uomo non sono io, non può essere, conoscerò quel volto che ho di fronte ogni volta che mi rado, giusto? E quando passo nel bagno solo per pisciare, uno sguardo lo dò? Non è mica tutto falso? E i miei amici ancora conoscono il mio nome, e ancora recitano la stessa parte, o mi sbaglio? Loro vedono, e sanno, che sono ancora io, loro sanno cosa amo e cosa detesto, come mi comporto, cosa penso, e addirittura come rispondere alle mie provocazioni. Sono io, Io che scrivo il copione. Cio che si fa e disfa dipende da me, nevvero? E allora perchè mi sento come saltellassi sulla Luna, su superfici e terreni mai visitati, in uno scafandro grossolano e datato, mentre ciò che mi è caro e coloro a cui sono caro rotolano nello spazio a 300.000km di distanza? Come è possibile che in quella sfera blu ancora ci siano danze, risate di fanciulli, e madri, e sorelle, e figlie e amanti? Ora che son qui, cosa cambia? Quella sfera blu che s’appresta a tramontare, avrà ancora spazio? C’è ancora quel graffito sull’albero? Quella scritta sul banco? Quella cassetta di canzoni registrate alla radio? Contano ancora, adesso che son qui? Adesso che nessuno può raccontare la loro storia, che senso hanno? Adesso che la loro storia è solo nella mente d’un pellegrino, in esilio, dove non può nuocere nè rallegrare, rimangono solo oggetti, e persone, non una trama a legarli, non un destino. L’unico legaccio son dati, serie di dati, come la pietra filosofale trasformati in oggetti brillanti, lampeggianti su di uno schermo, ed è su quello che consumo le mie ultime energie, raccolte in un fazzoletto.

Eternauta

domenica 29 novembre 2009

Su Dio, libero arbitrio e la sua buonafede

Su Dio, libero arbitrio e la sua buonafede

Dio non esiste. Questo non e’ tanto un fatto dimostrato o dimostrabile, quanto l’unica ipotesi che da’ un valore intrinseco al nostro essere.

Quale orgoglio, quale senso dovremmo noi ricavare dall’essere creature d’un essere onnisciente e onnipotente?

Quali sarebbero le giustificazioni di tale creatore dinanzi allo sfacelo che e’ questo mondo in cui abitiamo, nasciamo, soffriamo e infine moriremo?

Uno dei puntelli importanti della fede su queste obiezioni e’ il libero arbitrio. Analizzando il libero arbitrio pero’, la nozione si sgretola miseramente davanti ai nostri occhi. Libero da cosa? La sua origine e’ comunque da ricercarsi in Dio.

Se ci avesse creato con le leggi che governano il nostro mondo interiore e il mondo fisico, “libero arbitrio” perderebbe immediatamente di significato, dato che azioni e reazioni sarebbero per forza di cosa spiegabili con questi due insiemi di leggi, che noi non abbiam scelto, e le leggi stesse, l’impalcatura della creazione, sarebbero da tener responsabili per errori, nefandezze e del male in generale su questa terra.

Cosa ne ricaveremmo da questo scenario? Che siamo parte di una catena d’eventi orchestrata da una divinita’ (in quanto onnisciente e onnipotente) senza un minimo di controllo sugli eventi che ci accadono o che scateniamo, i quail sono invece imputabili alla matrice con cui tutto l’essere sarebbe stato creato da tale divinita’.

Facciam adesso l’ipotesi che Dio avesse imposto nel nostro animo (o in tutto il creato) una variabile totalmente casuale (chiamiamola anima, individualita’ o libero arbitrio nel caso di esseri viventi) che sarebbe responsabile diretta di ogni incoerenza con il progetto “buono” del creato.

Il primo problema e’ che Dio e’ onnisciente, e quindi dovrebbe sapere in anticipo cio’ che accadra’.

Se consideriamo questo, possiamo vedere come in realta’ e’ tutto gia’ preprogrammato e scritto, con la sola differenza che gli eventi che scaturiscono da questa impostazione non sarebbero direttamente scaturiti dalla (ed attribuibili pienamente alla) volonta’ di Dio. Anche questo punto e’ discutibile, dacche’ Dio, essendo onnisciente ed onnipotente, e decidendo di non modificare gli eventi, implicitamente da’ il suo assenso e la sua benedizione a questo corso di eventi, e se ne deve giocoforza assumere la responsabilita’. Inoltre, quale morale ci sarebbe nel distribuire gioie e dolori, inferni e paradisi ad anime create in maniera casuale come da ipotesi? Non si risolverebbe neanche il problema del meccanicismo del comportamento, dato che l’anima verrebbe creata secondo un principio casuale con i suoi attributi fondamentali, che comunque andranno ad interagire con l’esterno guidati e regolati da leggi sia interne che esterne che non potranno che dare un solo ed unico esito o corso di eventi, rendendo il libero arbitrio solo un illusione, creata dalla nostra mancanza di comprensione dell’insieme e dell’io, inoltre tale variabile non e’ scelta dall’individuo, che quindi non dovrebbe avere alcuna colpa o merito per via di essa.

L’ultimo scenario immaginabile sarebbe una realta’in cui in ogni situazione ci sarebbe una scelta casuale da parte dell’agente-uomo, il che creerebbe:

a) un universo non regolato da leggi psicologiche o morali intrinseche all’individuo, che di volta in volta agirebbe in maniera casuale, ma comunque prevista e conosciuta da Dio, complice nella sua consapevolezza degli eventi .

b) infiniti universi, tutti conosciuti da Dio, infinita sofferenza ed infinita felicita’, ma per il singolo uomo (o linea di coscienza in questo caso) poco cambierebbe, sarebbe in balia di una lotteria quantistica eterna nelle sue infinite incarnazioni parallele, e dovrebbe solo sperare che la sua linea di coscienza abbia maggior fortuna delle sue altre linee di coscienza parallele.

In ogni caso, per ognuna di queste ipotesi, se Dio esiste, e’ onnisciente ed onnipotente, e’ causa e complice di tutto cio’ che avviene, comprese tutte le sofferenze non necessarie (nulla puo’ essere necessario a Dio se esso e’ onnipotente).

Se non riconoscessimo a Dio l’onniscienza e l’onnipotenza, allora Esso non sarebbe altro che un essere qualsiasi che, incoscientemente, mette in atto un meccanismo su cui non ha totale controllo (un po’ come il dr. Frankenstein).

Se invece fosse solo onnisciente ma non onnipotente, sarebbe comunque responsabile in maniera uguale del suo creato e di cio’ che accade in esso in quanto al corrente delle conseguenze delle sue azioni.

Nel caso invece che Dio avesse ogni potere, tranne l’onniscienza, beh, allora sarebbe un po’ come un goffo scienziato o dottore che provasse rimedi ed esperimenti sulla sua invenzione o paziente senza davvero riuscirne ad eliminare errori e malattie, e noi saremmo sempre e comunque impotenti in balia di tutto cio’.

In ogni caso, e si potrebbe discutere a lungo sui vari attributi di un eventuale creatore, personalmente non vedo in questa figura qualcuno da adorare sinceramente e venerare al di sopra d’ogni cosa, cosi’ come vorrebbe la fede, se non come un atto di sottomissione di fronte ad un potere piu’ forte. Potrebbe instillarmi timore o paura, ma non rispetto.

Credo anche che l’esistenza di tale ente ci ridurrebbe al livello di personaggi , non persone, senza una reale ragione d’essere che non la volonta’ del burattinaio, scrittore, regista o quel che si voglia. Ecco perche’ ritengo piu’ desiderabile l’ipotesi che noi siamo parte d’un avventura chimica chiamata vita, o evoluzione, parte d’un sistema naturale impersonale senza creatore, e di una catena d’eventi resi possibili da delle leggi (io le chiamerei circostanze, il termine leggi e’ fuorviante se non c’e’ un legislatore) naturali, tutt’uno con montagne, sistemi solari, insetti, stalattiti eppure individuali ed unici grazie alle circostanze che c’hanno posto in essere, affrancati da un mastro burattinaio e liberi di scoprire e guardarci intorno, teorizzare, creare parole, idée e valori aggiungendo strati d’essere a questa realta’ dall’interno, partecipando ad una creazione spontanea e in divenire senza la sensazione che qualcuno ci guardi come da un microscopio e sghignazzi divertito alle nostre invenzioni, vite ed avventure, sapendo che non sono farina del nostro sacco, ma un film scritto diretto e gustato da quest’essere ultraterreno, film di cui gia’ conosce il finale.

Eternauta

domenica 20 aprile 2008

Una Bozza sul Libero Arbitrio

Sul Libero Arbitrio

Occasionalmente mi sono chiesto e ho discusso sull’esistenza o meno del libero arbitrio, una delle tante questioni irrisolte che vengono assunte però come pilastri reggenti della nostra ragione. La sua natura sembra ad un primo sguardo essere autoesplicativa, evidente fino quasi a renderlo un concetto banale ed accettato nel linguaggio e nella forma mentis della (quasi) totalità delle persone e conosciuto anche con i nomi di Scelta, Possibilità, Alternativa e simili. Tutti abbiamo avuto talvolta la sensazione di scelta a priori o totalmente indipendente. Si va la prima volta a mangiare Thailandese, ad esempio, e non si ha la minima idea di cosa significano i nomi sul menu, poniamo, ed allora scegliamo una cosa qualsiasi incrociando le dita. Sbagliato. Se si è più puntigliosi, ad esempio, si chiede al cameriere cosa si nasconda dietro quei nomi, se si è refrattari alla novità ci si alza e se ne va o magari si chiede al cameriere se è magari possibile avere una pennetta al pomodoro! Tutto ciò quindi per dire che in questa situazione, come in altre, la nostra scelta, le azioni, reazioni e conseguenze non sono “libere”nel senso di “incondizionate”. Non intendo che vi sia qualcosa di esterno che ci controlli e neppure che vi sia una volontà superiore, tantomeno un futuro preordinato da qualche entità onnipotente. La non libertà anzi, in molti casi deriva dal nostro essere in grado di esercitare la nostra volontà (elemento che porta tanti vincoli quanti ne potrebbe spezzare) tanto quanto da cause esterne. Ci vorrebbe una nuova parola che si distingua da “libertà” nel senso che, la libertà per come la intendiamo, il più delle volte è libertà condizionata e limitata da alcuni fattori. Un fatto, accadimento, situazione o scelta, che sia slegato completamente da ciò che lo precede, segue o circonda e dall’ente coinvolto, non esiste, e, probabilmente, ad uno sguardo infinitamente acuto le condizioni e i limiti nonchè le influenze e le predisposizioni si dispiegano come un equazione dal risultato univoco. Questa affermazione è davvero problematica poichè ci pone innanzi ad uno scenario di irresponsabilità personale, determinismo e impotenza. Questi, almeno ad un primo sguardo, sembrano i risultati concettuali dell’accettazione di questa teoria, dato che a prima vista non sembra lasciare spazio a nessuna responsabile scelta da parte dell’individuo. In realtà, quello che la teoria invece elimina dal quadro concettuale è la possibilità di un altra scelta e lascia invece all’individuo la corresponsabilità degli accadimenti che lo vedono agente attivo. Esso, in quanto tale, porta con sè il suo apparato cognitivo, la sua veltanschaung e il suo potere d’azione o volontà di azione ovvero, prendendo a prestito da Nietzsche, potremmo dire che esso è portatore di una sua propria volontà di potenza che diviene appunto fattore dell’equazione dell’evento. Concentrando la nostra analisi su questo peculiare fattore, più interessante in quanto più vicino a noi umani, ci viene subito o quasi la curiosità della sua composizione, o almeno, ci si chiede se sia un qualcosa di composto o solamente un qualcosa che esista ab solutum e che non si possa ridurre o analizzare oltre. Che sia immutabile pare poco probabile, anzi non è per niente difficile trovare nella vita di tutti i giorni casi empirici che smentiscono ogni pretesa di monolitica coerenza o determinazione continua, o ancora, di preferenze totalmente fisse. Esso sembra invece essere concettualmente molto vicino ad un essere vivente, o meglio all’essere umano stesso, indistinguibile da esso poichè parte di esso, appunto, e quindi capace di adattarsi, apprendere, essere manipolato, ma solo fino ad un certo punto. Il discorso ora però pare prendere una piega a spirale che ci porta di nuovo a chiederci qual’è quel “certo punto”. Un modo per aggirare o rispondere la questione è assumere che questo nucleo essenziale sia simile ad una forma di metallo o plastilina capace di deformarsi a seguito di colpi esterni più o meno violenti, e di quindi mutare la sua forma base per adattamento e continuando, ciononostante, a fungere da fattore costante o fisso nelle varie situazioni, seppur il suo valore cambi nel tempo. Esso dunque può essere grosso modo concettualizzato come un fattore semicostante con un valore approssimativamente coerente seppur in costante fluttuazione. Ovvero possiamo raffigurarlo come una costante in una matematica ad infinite dimensioni, la quale si modifica attraverso somme e sottrazioni (di infinitamente molteplice natura) ad ogni dato evento. Concetto il quale, volendo, richiama di nuovo alla mente Nietzsche con il suo eterno ritorno, con la sua immagine di un tutto composto da ogni singolo istante che si trascina e grava sull’istante presente. Figurativamente parlando, questo sembra un fardello ben più grave del semplice “destino” ma, ad un secondo sguardo, coinvolge anche noi nella sua costruzione, seppur al prezzo di esercitare una pressione modellante sul nostro Io.

mercoledì 15 agosto 2007

Il Volo del Falco

Più volte nelle nostre battute di caccia, il Falco distrattamente captava la lucida superficie del mare, riflettente il suo sguardo acuto e stretto. Talvolta lo notavo, segretamente lo incoraggiavo, ed esso provava sempre più diletto nel volteggiare invaghito tra gli iridescenti fulgori marini, soprattutto nel tempo in cui il sole calava, ed i suoi raggi appena lambivano la superficie dell'acqua. Presto le prede diurne e terrene gli andarono a noia, il sole, a cui prima miravano i suoi voli, gli sembrò, benchè irraggiungibile, troppo vicino, invadente, e le nude creature gli parvero restituire la luce diurna in maniera sempre più prevedibile, meno interessante. La nebbia parve cadere sul suo sguardo acquoso, ogni volta che i suoi artigli si staccavano dall'imbottitura sul mio braccio, temevo mi si liquefacesse, diventando della stessa sostanza del mare. Osservava sempre più di frequente le evanescenti sagome marine e, al suo occhio, divennero col passar del tempo le uniche forme di vita. Ebbe le sue prime vittorie vicino alla riva, e fu come se quei pesci fossero il suo primo pasto. Si spogliò a poco a poco delle penne, incurante dello sguardo indagatore degli altri volatili, riconoscente e quasi sprezzante nei miei confronti. Un giorno la mia vista lo perse sulla linea dell'orizzonte, stetti sulla riva, colpevole, disperandomi e lo aspettai fino al novilunio. Tornò senza far rumore, ebbi quasi l'impressione che fosse stato nascosto sotto la sabbia per tutti quei giorni, in un sadico nascondino, ma guardandolo capii... il suo rigido becco aveva sondato vanamente e a lungo l'informe fluido, alla ricerca di sguscianti forme, e non ne aveva prese... Il suo stretto e acuto sguardo era rimasto cieco e impotente nei labirintici abissi, talvolta ingannandolo, ed esso s'era morso più volte da sè, credendo di aver agguantato la preda. Capii nel suo sguardo che mai più le sue ali l'avrebbero portato verso le immense acque, capii nella fissità del suo iride che un accennato riflesso su un'onda l'avrebbe ferito più di cento soli da oggi in poi. E la colpa era stata solo mia.

By Eternauta.

martedì 12 giugno 2007

La creazione oltre l'analisi. Un dialogo reale tra due persone immaginarie. E viceversa

L'esposizione che segue è il risultato diretto di un problema creativo che si è delineato negli anni più recenti della mia esistenza, ovvero la mancanza sostanziale di valori fissi e oggettivi.
Il passaggio dal problema di carattere creativo ad uno di natura spirituale è stato molto breve.

Da sempre sono stato affascinato da quello che comunemente viene definito male, il cattivo, il brutto, sporco, malvagio e gratuito. Nel tentativo di cercare una giustificazione a questa mia tendenza ho cominciato a studiare tutte le forme opposte ad essa: un po' perché ingenuamente ritenevo di dover finire dalla parte dei buoni, un po' per comprendere e bilanciare la mia stessa natura controversa.

Per rendere quanto più velocemente possibile l'idea dei risultati a cui sono pervenuto nella mia ricerca, e del percorso che ho seguito, farò i nomi più importanti in cui mi sono imbattuto: il buddhismo, l'I-Ching e Nietzsche.

Ho compreso che le categorie di pensiero bene e male, assieme a qualsiasi altro tipo di catalogazione, sono del tutto arbitrarie e che Dio non esiste, quindi tutte le forme di pensiero conformi alla religione cattolica non sono oggettive e possono anche andare al Diavolo, che invece esiste.

Detto ciò, la mia cultura, i miei studi, la mia vita, sono finiti nel caos più totale: senza i principi di rettitudine non siamo null'altro che le gocce di un mare senza scopo né fine.
La rettitudine, a questo punto, può sembrare un bene necessario ma ingiustificabile.
Tale soluzione non mi ha mai soddisfatto appieno, quindi mi sono dedicato estesamente alla ricerca del senso della vita, partendo comunque dall'assunto che, se il male esiste, deve essere necessario e coltivato quanto il bene.

Il problema creativo che nasce sul terreno di queste considerazioni è che tutto quello che si può dire diventa ugualmente vero (o ugualmente falso, non so perché ma prediligo la prima dicitura).

Se tutto è vero, ogni tipo di tesi, anche la più aperta e onnicomprensiva, è confutabile:
per quanto elaborate e dettagliate possano essere, sono dei ritratti imparziali della realtà.
È per questo che ho maturato un rifiuto deciso per le monografie.

Prima di passare al dialogo, il vero corpo di questo scritto, devo spendere ancora due parole sulla soluzione al dilemma della parzialità espositiva: l'arte.
Nel caso specifico citato, in cui analizziamo i limiti di una monografia nel dipingere un quadro oggettivo della vita, contrapporremo ad essa l'arte di tipo letterario, per rimanere ovviamente in un campo d'azione familiare (è desumibile che chiunque sia arrivato fino a questo punto dell'esposizione non è un illetterato, nel senso che perlomeno sa leggere).

Le persone mentono, o meglio, cambiano, e naufragano, a seconda dei casi, tra quelle isole che abbiamo deciso di chiamare Bene e Male. Non è possibile rendere i lettori partecipi di tali cambiamenti tramite una monografia: essa tenderà ad esprimere, catalogare, oggettivizzare ogni teorema esposto, cristallizzandolo e limitando la sua natura di pensiero.

Un romanzo, invece, tramite l'uso dei suoi personaggi, permette ad un autore di esprimersi attraverso una moltitudine di pensieri, fatti o cose della vita non necessariamente in accordo tra loro.

A questo punto, spendere ulteriori parole per smontare il valore oggettivo degli studi espositivi, attraverso una esposizione, inizia ad essere paradossale, per cui devo necessariamente cedere la parola a uno strumento differente. Per l'occasione, eccovi confezionato un pezzetto di narrativa dialogica che completa e realizza quanto ho provato a dire poc'anzi.

Dave e Ianex - Un dialogo

Dave
Aiutami a mettere insieme due idee, va'.
Sto per scrivere una cosa.

Ianex
Vai.

Dave
Si tratta di un discorso contro certi discorsi, una critica al metodo divulgativo.
Voglio dire: comunque tu ti ponga in una monografia, in una critica, sei costretto ad assumere una posizione.
Si finisce sempre all'interno del cerchio: discorso, contro-discorso, contro-contro-discorso.

Ianex
Ah. Ma non hai paura che la tua decostruzione del metodo divulgativo finisca per rimanere intrappolata essa stessa in questa dinamica?
E soprattutto, che proponi?

Dave
Aspetta, alla proposta ci arrivo tra un secondo.
È praticamente un inconveniente mio personale: da quando ho capito che non ho più un punto di vista stabile sulle cose, ho maturato una certa insofferenza per il fine divulgativo.
L'essere umano è una creatura troppo volubile, inizio a temere ogni presa di posizione, fermo restando che quest'atteggiamento è una follia, ok?

Ianex
No, non è affatto una follia. Non per me. È alla base del metodo scientifico, e della speculazione filosofica.
Il problema, semmai, è quanta importanza vogliamo dare alla necessità di dimostrare una determinata tesi, perché la dimostrazione si serve proprio di quello schema discorso, contro-discorso, contro-contro-discorso che citavi prima.
E qual è il motivo per cui dimostriamo la veridicità di una tesi? Affinché sia condivisa, per persuadere la gente che la nostra è quella giusta. Ma se non vogliamo persuadere nessuno, se vogliamo solo esporre, allora non abbiamo bisogno di un metodo "scientifico". Possiamo, come suggerisci tu, servirci di uno strumento umanistico.

Dave
Sì, quello che dici è vero.
Però, attraverso la narrativa, l'autore scompare, si mimetizza, o meglio diventa un mondo.
Attraverso la narrativa è possibile esprimere una molteplicità che oltrepassa qualsiasi discorso espositivo.
Insomma, quello che voglio scrivere vorrebbe togliere un po' dello strapotere che posseggono le monografie al giorno d'oggi. Nello specifico, quello che è terribile e fastidioso non è la monografia a carattere scientifico, ma la monografia di tipo filosofico. Mi riferisco a quella.
Il mio problema, mentre mi rapporto allo scritto e alle idee, è che attraverso l'esposizione mi sento limitato; soprattutto perché, se affermo che è vera una cosa, non sempre posso sempre affermare nel rigo successivo che è vero il contrario.
E qui arriviamo alla mia proposta: vorrei dedicare dello spazio sul web a spiegare che secondo me, una soluzione al mio problema filosofico, creativo, educativo e spirituale è attraverso la narrativa.
Perché, dico io, se voglio informarmi sui cinesi, mi devo leggere le monografie di storia economica, se il film La stella che non c'è mi ha aperto gli occhi in molti modi diversi, e in maniera più completa?
Ovviamente il mio discorso non è solo narrativo nel senso letterario.

Ianex
Capisco, certo.
Infatti ho detto "umanistico" in senso lato.

Dave
Il mio vuole essere un tiro mirato a dichiarare l'arte in generale come uno strumento esplicativo che va veramente oltre, oltre ogni monografia mirata.
Voglio dire, la gente dovrebbe sapere che nell'arte c'è molta più informazione di quanta se ne può trovare in un documento espositivo.
Lo dimostrano le nostre dissertazioni su Gerry, un film che di informazioni in senso stretto ne ha zero.

Ianex
Il problema è che, facendo un discorso del genere, cadi in una contraddizione semiotica: primo perché utilizzi categorie di pensiero proprie del sistema che vuoi abbattere; secondo, in quanto postuli la sostituzione di una cosa con l'altra, che è come fare un torto all'arte stessa, che ha certi ambiti espressivi proprio perché gli altri campi sono indagati da forme di pensiero più appropriate, come quello scientifico.

Dave
Allora, invero volevo servirmi proprio di questo paradosso.
La stessa contraddizione insita nello scritto espositivo mostra i suoi evidenti limiti.

Ianex
Secondo me, puoi risolvere questa contraddizione di termini con l'esempio del documentario cinematografico, che tra l'altro è stata la prima incarnazione del cinema e che oggi invece consideriamo - erroneamente - un mezzo espressivo narrativo.

Dave
Per me quello è sbagliato.
Cioè, quello che dici è la monografia, ma fatta a film.
Io voglio solo annunciare al mondo che le chiavi per la comprensione del mondo non si trovano soltanto nell'esposizione pratica.

Ianex
Nononononononononnononono.
Non hai visto i veri documentari, se dici questo.
Non hai visto i documentari di Herzog, i vecchi documentari del muto.
Sul serio, guardati i veri documentari.

Dave
Il film documentario, per me che so' ignorante, è un cazzo di film dossier che ti racconta i cazzi per filo e per segno.

Ianex
No, vedi, rimedia a questa tua ignoranza.
Il documentario cinematografico è cosa ben diversa da quello televisivo.
Il documentario cinematografico è arte.

Dave
Insomma, però cerchiamo di capirci: io non cerco una soluzione.
Per me la soluzione esiste già.
Va solo colta, capisci che intendo?

Ianex
Sì, ma credo che ho colto nel segno: la soluzione è proprio il documentario cinematografico.
Nel senso che è un esempio valido, pratico, che comprova la tua tesi.

Dave
Ah, in quel senso, ho capito.
Ma il documentario cinematografico si confina alla cinematografia, mentre qui il problema è di carattere generale.
Insomma, le cose della vita sono indimostrabili.

Ianex
Procurati L'uomo di aran e Nanook l'eschimese, di Flaherty, il più grande documentarista della storia del cinema.
Tra l'altro, sono documentari che non vogliono dimostrare nulla, documentari non a tesi: quelli sì che sono fastidiosi.

Dave
Esatto, la tesi deve morire.
Ovvio, l'arte può anche essere strumentalizzata.
Vedi I promessi sposi: il romanzo più brutto della storia.
In realtà qua e là mi piace pure. Ma alla fine, dai, Manzoni è il cazzo mio.
La mia idea è che l'arte, può rappresentare la vita, simboleggiarla, perché essa stessa è un simbolo.

Ianex
Trovo la tesi marxista - secondo cui I promessi sposi siano arte strumentalizzata - molto riduttiva: anche perché poi nessuno ha strumentalizzato l'arte più del marxismo... forse solo la chiesa cattolica.

Dave
Non sapevo che questa fosse una tesi marxista.

Ianex
Secondo me, al contrario, I promessi sposi sono la dimostrazione di quanto l'arte possa farsi largo anche nelle pieghe di un'ideologia opprimente. Lo stesso vale anche per Ejzenstein, sovietico, e il cinema.
Non a caso, sia Manzoni che Ejzenstein, al di là dell'ossequio che offrono all'ideologia, sono autori di opere fortemente teoriche: Manzoni ha inventato la lingua italiana: I promessi sposi sono un pretesto per confezionare una ricerca linguistica e formale minuziosissima. Così come Ejzenstein inventa il montaggio cinematografico, e si serve, per farlo, del ritmo, quasi come i futuristi della rivoluzione.

Dave
Splendido.

Ianex
Maronna, quante ne sappiamo.

Dave
Guarda, tutta questa conversazione, i nostri batti e ribatti ci hanno permesso di rendere vivo lo stesso concetto di fondo, quello per cui volevo scrivere la monografia contro le monografie.
Voglio dire: noi potremmo essere due personaggi scritti.
E il nostro autore con evidenti crisi di identità può abbracciare tutte le posizioni del mondo attraverso una discussione.

Ianex
Sì, ma di quelli di fronte al quale lo spettatore s'inalbera dicendo: "Maddai, non sono credibili. Questi personaggi non sono reali. Sono troppo dotti, pittoreschi e letterati per essere credibili".

Dave
Questa sì è informazione.
Questa è l'arte, compa'. L'arte è un microcosmo.

domenica 10 giugno 2007

Discorso sull'Ozio contemplativo e il Divertissement

Il tema di questo mio primo intervento è il confronto tra divertissement ed ozio contemplativo o meditativo. In effetti mi sembra adeguato per inaugurare questo spazio, in quanto inteso come un luogo di ozio, sperabilmente "produttivo". La vita moderna ci lascia pochi spazi personali oramai, e, attenzione, ho detto personali e di proposito non ho parlato di tempo libero. Il tempo libero è un qualcosa di legato al concetto di lavoro, un non essere impegnati a livello molto superficiale. Al di fuori di quello, spesso, il tempo libero diviene un'occupazione esso stesso, qualcosa che deve essere impiegato, consumato, riempito. Il trionfo del divertissement, in ogni campo, della distrazione, del di-vertimento, del fuori di noi come luogo ideale in cui far trascorrere le lancette dell'orologio. Perché, in fondo, chi è che ha piacere a trascorrere il tempo con se stesso? Si dirà che lo facciamo per stare in compagnia, per conoscere, socializzare, ma avanti, uno sguardo nemmeno tanto approfondito sulla nostra realtà ci restituisce uno scenario affatto diverso, fatto di isolamento emozionale e conoscitivo verso l'altro, l'amico, la compagna/o, la famiglia. Nessuno sa nulla di noi, e quel che sa, non lo comprende, e viceversa. Provate a ricordare l'ultima volta in cui avete oziato, magari in compagnia di qualcuno. La frenesia e l'imbarazzo, posto che non le senta solo io, diventano quasi insopportabili, e sempre più poche sono le persone con le quali non ci mette a disagio il semplice oziare. Ovviamente non sto parlando del divertissement, che invece può alternare momenti di euforia a disperazione quasi. Intendo invece puntualizzare questa perdita di spontaneità, questo istinto ad essere in moto perpetuo per non ascoltare e gli altri, che può portare facilmente ad abuso di sostanze siano esse droghe, farmaci, alcool o dipendenze più sottili, compulsive, dal cibo, televisione, computer, videogame, per crearsi quello spazio dove sfuggire a se stessi, alla nostra coscienza ed istinto che ci braccano disperatamente. Il divertissement, appunto, surrogato della serenità interiore. Una spiegazione metapolitica-economica, macro, insomma, potrebbe far risalire la radice di ciò alla società dei consumi, al suo bisogno di individui insoddisfatti e sradicati dalla loro naturalità e dal loro mondo interiore, i quali rappresentano il consumatore perfetto, l'uomo moderno. Non so se sia possibile però che tale forza immensa di condizionamento possa essere solo esogena e definita, perché mi sembra invece un qualcosa di così totalitario nella nostra civiltà occidentale da apparire metafisica ed inspiegabile. Ogni qual volta entriamo in uno stato d'ozio, le pulsioni assaltano quello stato, e ci inducono o ad utilizzare tutta la nostra volontà per rimanere neutri e quindi togliendo energia ad un potenziale costruttivo interiore, o semplicemente ci sopraffanno in tante maniere subdole. Gli stimoli sono tanti, fini a se stessi e a portata di mano. Di fronte a tale schieramento di forze, il nostro io riflessivo, sempre più avvizzito, vacilla e cede sempre con maggiore facilità, e ad ogni stimolo soddisfatto ritorniamo indietro più assuefatti, meno liberi ed incapaci di crearci alternative. Le persone si inaridiscono, perdono la loro capacità di comunicare, non trovano conforto, comprensione umana, condivisione, e tornano strisciando ai loro egoistici divertimenti, in una spirale degenerante. Cos'è che ci spinge a comportarci così, è mai possibile che non si possa che essere rivali, nemici o alleati di interesse a questo mondo? E sì che sembra che i bisogni spirituali e i problemi esistenziali (vedi proliferare di sette e confessioni religiose, aumento dei suicidi, aumento delle malattie psichiche) sembrano essere forse alla cima delle nostre preoccupazioni, allora è davvero irreversibile il nostro alienamento? Da cosa è creato allora? Se siamo noi i responsabili, si può tornare indietro?


By Eternauta